Lug 27, 2012 - Briciole    3 Comments

Rimuginando…

Mi  è venuto in mente quello che un amico mi raccontò al suo rientro da un viaggio negli Stati Uniti; era stato a Miami –  erano gli anni di Bay Watch: tavolette rosse impugnate da stupende bagnine in costume altrettanto rosso… Pamela Anderson, ricordate? – ed era rimasto deluso dalle ragazze che aveva visto in spiaggia. Ragazze vere, spesso sovrappeso, senza seni mozzafiato… potremmo dire ragazze normali?
Mi guardo intorno su questa spiaggia romagnola e mi vengono alla mente alcuni pensierini estivi, soprattutto ispirati dalle riviste che vedo circolare sotto gli ombrelloni… le copertine mostrano come sempre bellezze forse ancora più perfette e irraggiungibili di quelle degli anni novanta. Ma le persone normali, i corpi normali, sono qui, sotto i miei occhi; sono una marea e se li guardi bene, ognuno ha qualcosa di bello, ognuno ha un difetto. E’ anche vero che il mio dirimpettaio teutonico potrebbe stare sulla copertina di una rivista, e direi che lo sa; o forse fa il modello, perché ogni dieci minuti si produce in una serie di flessioni o di addominali per mantenere cotanta perfezione.
Ma i corpi normali – il mio, quello delle nonne che trottano al seguito dei nipoti, quelli delle neomamme alla prima vacanza col pargolo o quella dei baldi quaranta, cinquantenni che spingono passeggini o trasportano piccoli uomini sulle spalle –  raccontano storie diverse da quelle che ci spacciano giornali, video e fotografie patinate.

Primo pensiero: i corpi cambiano. Banale, vero? Eppure vorrebbero farci credere che si possano congelare in un tempo indefinito – mi vengono in mente i perpetui 27 anni della signorina Silvani – in cui tutto è levigato, tonico, i capelli folti e colorati, il passo elastico, la forza di gravità non insidia mento, guance e protuberanze varie; le gravidanze non lasciano segni, le preoccupazioni e gli stress non disegnano rughe; il fumo, l’alcool, le notti brave ci rendono viveur ma non presentano il conto. E qui mi sorge spontaneo il secondo pensiero: siamo proprio sicuri che sia solo una questione di età? Avere vent’anni, venticinque, trenta non ti garantisce automaticamente la taglia quaranta e le misure perfette, perché madre Natura – o la genetica se vogliamo essere scientifici– si diverte a rimescolare le carte e dal mazzo non sai cosa peschi. La vera sfida è avere cura di ciò che ci è toccato; guardarsi con un poco di indulgenza e con molto rispetto; non lasciarsi andare inseguendo traguardi inesistenti. venere_esce_conchiglia.jpg
Terzo pensierino estivo, a proposito di pesca e mani vincenti; pur con tutti i loro limiti, le pecche e le brutture che sembrano non toccare attori, modelle, veline etc… i normalissimi possessori dei corpi normali che vedo qui intorno sono (felicemente) accoppiati. Significa che l’amore è cieco? O che non sono in grado di apprezzare la bellezza? O peggio, che si sono dovuti accontentare? Sì. No. No. Sono le risposte date nell’ordine.

Abbiamo tutti gli occhi per rimanere a bocca aperta davanti ad un modello della pubblicità di Dolce e Gabbana, e magari potremmo anche innamorarcene; e mentre passeggi per strada è chiaro che non rimani abbagliato dall’anima della bella ragazza che ti cammina davanti… cosa abbiamo  visto nella nostra dolce metà? Non certo i venti chili in più che tutti possono notare, ne’ la tendenza alla calvizie, o la mancanza di seno… E il signore che ho di fronte, non credo che si sia fatto frenare dal fatto che la sua futura moglie aveva chiaramente un braccio anchilosato dalla poliomielite… Non ho tutte le risposte; mi piace immaginarle e ricamarci storie. Mi piacerebbe solo vivere in un mondo un poco più tollerante e compassionevole verso la normalità; anzi, un mondo in cui si avesse un po’ più di coraggio per accettare qualche limite, piuttosto che essere convinti che sia doveroso e meritorio valicarli.

Giu 30, 2012 - Briciole    3 Comments

Sogno

Comprare una villa solo perché mi piaceva l’albero che sovrastava i cancelli di ingresso; è questo che ho fatto.
Unica azione d’impulso in una vita altrimenti ordinata, responsabile, razionale.van_gogh_campo_di_grano_con_cipressi.jpg
Quel tronco snello e più volte ricurvo, le foglie verdi che in punta di piedi avvolgevano ogni singolo ramo, per fremere e luccicare contro il cielo azzurro… non so cosa mi prese. Uno strano struggimento; e una visione – sogno o desiderio, chissà… – io seduto all’ombra del loggiato; in lontananza, incorniciate dai rami,  grasse nuvole bianche a ombreggiare i cumuli di fieno lasciati a seccare; un campo giallo di grano; e un bambino, che ascolta la storia da un libro arruffato dalla brezza tiepida…
Così seppi che dovevo comprarla e venire a trascorrervi le mie villeggiature, lontano dalla calura, che d’estate rendeva greve e indisponente la città; il parco era piccolo, ma non mi sfiorò il pensiero che alla mia futura sposa sarebbe mancata la frescura di un fontanazzo, il ristoro dei giochi d’acqua. Ero sicuro che anche lei avrebbe amato quell’albero, e avrebbe trascorso pomeriggi di quiete a ritrarlo con i suoi acquerelli.
Mi ero piegato all’idea del matrimonio, letteralmente, di malavoglia e con lo spirito con cui, nella mia carriera di ambasciatore della città, avevo affrontato gli incarichi più gravosi: senso del dovere e lealtà. Verso il mio casato e la mia famiglia.
Amavo viaggiare; amavo lo scorrere  solitario delle mie giornate, in cui l’ozio significava silenzio e solitudine dopo i contatti pubblici legati ai miei compiti. Non desideravo intrusioni; non ambivo a cambiamenti, ne’ tantomeno avevo necessità di elevare il mio rango attraverso parentele.
Ma vidi la villa e la comprai; e poche settimane dopo incontrai la contessina Carlotta Malvezzi. Il giorno in cui lei mi mostrò i suoi schizzi e disegni, vedendone alcuni particolarmente delicati di alberi – pioppi, ciliegi in fiore, robinie… – ebbi la certezza che un altro disegno si stesse componendo e delineando per me. L’albero, la villa, le estati dorate ci stavano aspettando – il bambino, perché no? dopotutto anche il bambino…
Non mi preoccupai, all’inizio, quando lei mi face notare quanto la nostra villa distasse dalla via principale; o come fosse piccola per accogliere più di tre, quattro ospiti per volta. Mi irritò maggiormente il giardiniere, con la sua insistente richiesta di abbattere l’albero perché danneggiato da un fulmine. Cercava di convincermi decantando la simmetria che avrebbe potuto ottenere anche sul fronte d’ingresso, con le aiuole geometriche a fare da ali al viale, punteggiato di essenze perfettamente potate. Io, invece, sognavo un parco “all’inglese” come avevo avuto modo di ammirare durante i miei soggiorni all’estero: asimmetrici, liberi, poetici… Solo il desiderio di non scontentare troppo Carlotta mi costrinse a recedere da questo sogno. Tollerai il fastidioso individuo e le sue cesoie sempre all’opera. Cercai di non farmi irritare dal tempo che Carlotta trascorreva con lui, a me così indigesto, per decidere le migliorie da apportare al parco; in fondo erano momenti per lei felici: studiare i progetti la animava e la prospettiva dei cambiamenti la consolava della temporanea banalità della villa. L’anno successivo, mi diceva con sguardo raggiante, avrebbe avuto un aspetto completamente diverso, sia all’esterno, sia all’interno, grazie anche all’intervento di un architetto, un tappezziere, un decoratore… Ed io lasciavo fare, proprio perché sentivo di doverle qualcosa per la solitudine in cui trascorrevamo le lunghe giornate estive: ciò che per me era una fonte di energia, per lei era, al contrario, una prova che richiedeva pazienza e sforzo.
La nostra prima estate passò così: io assaporai ogni singolo giorno, senza alcuna fretta che tornasse l’autunno; lei divenne sempre più malinconica e stanca, come se la villeggiatura l’avesse sfinita. Incolpai l’avvicinarsi del mio prossimo viaggio e dei mesi di lontananza che ci aspettavano.
Prendemmo congedo dalla villa; ebbi un ultima discussione col giardiniere, a proposito dell’albero. Di quell’ultimo scambio di battute, mi colpì lo sguardo di Carlotta, che rimbalzava dal mio volto a quello dell’uomo, per poi velarsi di cosa?… rassegnazione, insofferenza, o forse vergogna… non riuscii a decifrarlo, ma incolpai me stesso per il misero spettacolo che stavo dando. E partimmo. Un’altra immagine conservo di quella mattina: il capo di Carlotta voltato a guardare il paesaggio, la curva della guancia increspata in un lievissimo sorriso pensoso, il raggio di sole che vi si posa, facendo brillare il pulviscolo nell’aria. E le mani, leggere, inquiete, indecise se rimanere posate una sull’altra, o aprirsi in un ventaglio sul segreto che stupiva entrambi.
All’improvviso l’andatura ritmica della carrozza si interruppe in uno schiocco violento; un pericoloso inclinarsi ci fece sussultare, facendo gridare Carlotta per lo spavento. Il cocchiere, in un attimo di distrazione, non aveva saputo evitare un profondo solco lasciato nel terreno molle di pioggia da un carro più pesante; una delle nostre ruote si era spezzata. Feci scendere Carlotta, premurandomi che fosse sistemata a bordo strada, fuori da eventuali altri pericoli e mi accinsi ad aiutare il nostro cocchiere, mentre mandava il suo garzone a cercare aiuto.
Successe tutto in un attimo: tentando di spronare i cavalli perché si sforzassero di disimpegnare le ruote dal fango, si imbizzarrirono… o forse non seppi controllare le briglie che il cocchiere mi aveva affidato… ricordo solo il nitrito furioso che precedette l’impennarsi dell’animale. E gli zoccoli che mulinavano davanti al mio volto. So che caddi; ricordo il sapore metallico di sangue e terra in bocca, mi riportarono alla villa, perché ho visto le foglie frementi del mio albero. Poi un accorrere frenetico. Persone. Voci. Lacrime. Pareti bianche e luce che aumenta e sfuma; per lunghi giorni ho percepito questo ritmo di ombre. Neve, e giorni grigi e umidi. In questo lungo torpore, a volte, sogno di muovermi tra le stanza della villa, osservando i servitori; aspetto, paziente, di guarire, di riprendere le forze, per potere riabbracciare Carlotta, per potere abbracciare il bambino. Ne ho sentito il pianto; è di nuovo estate, lo avverto dai profumi intensi di fieno tagliato, papaveri, e tigli. Ho dormito così a lungo? Non sento più vagiti, ma il ciangottio di un piccolo essere che impara a parlare; la malattia, forse, mi fa confondere mesi e giorni. Annebbia la mia mente, da troppo tempo assopita. Oggi, però, non mi sembra di sognare…
Vago per le stanze; le finestre sono spalancate, per fare entrare quanta più aria, e luce possibile; le decorazioni, ultimate, sono davvero belle, Carlotta aveva ragione. I tendaggi hanno colori tenui, luminosi; il parco ha preso la forma simmetrica e ordinata che tanto vagheggiava il giardiniere. Mi avvicino alla loggia principale e il respiro si ferma: eccola la mia visione di nuvole e sole… un bellissimo bambino dai capelli bruni è in braccio a Carlotta. Non leggono un libro, ridono sulle parole di una filastrocca. Non mi hanno sentito arrivare, non voglio spaventarli. Allungo una mano, così sottile e bianca, troppo diafana per potersi poggiare… Non riesco a toccare la piccola testa ricciuta. Un refolo di vento agita i capelli, i nastri delle vesti, mi spinge ad andare oltre; potrei quasi toccare le foglie lucenti del mio albero – dopotutto lo hanno risparmiato… Madre e bambino si alzano, si sporgono dalla balaustra; vedo, mentre mi allontano, la piccola testa girarsi di scatto al suono di una canzone fischiettata, seguire il padre che, come sempre armato di cesoie, rifinisce le siepi della villa…

Giu 9, 2012 - Sogni e nostalgie    2 Comments

Riepilogando…

Ogni tanto mi piace incolpare il mio segno zodiacale delle mie piccole manie e ambiguità. La verità, invece, è che sono abbastanza prevedibile e piana; anzi, paziente e schiva… Oggi mi vengono in mente questi due aggettivi.

Non sto ad elencare per quali giri di pensieri mi sia messa a fare la conta dei concerti cui ho assisitito. Diciamo che a Novembre verrà in zona in gruppo rock che mi piace molto e ascolto – i Muse – ma credo che non comprerò il biglietto: le difficoltà logistiche, i figli, ma soprattutto la paura di essere un pesce fuor d’acqua – e “datato” per di più… No, no, meglio l’intimità di casa, e magari qualche concerto più soft, magari in un teatro, senza file chilometriche ai concelli, senza caos e corse: decisamente più nelle mie corde.

Chi sono riuscita a vedere, dal vivo? Dunque: De Andrè – due volte! – Paolo Conte, Madredeus, Jordi Savall, Massive Attack – ragazzi, è stata anche la prima volta che mi sono fatta uno spinello, sempre che respirare la nuvola compatta che mi avvolgeva possa considerarsi valido! – Antony and the Johnson, Franco Battiato, Angelo Branduardi, Moni Ovadia… Non tanti, forse, ma tutti inseguiti con pazienza certosina. Ascoltati e seguiti da lontano, non mi azzarderei mai ad avvicinarmi per un autografo. Perchè? Per timidezza/terrore/vergogna… a scelta, e forse anche per l’inconffessabile paura di far scendere dal piedistallo un mito.

Cosa che mi è capitata, del tutto involontariamente, con Angelo Branduardi; una sera di ottobre, in Piazza Grande a Bologna… in cielo una stupenda luna piena che illuminava San Petronio in modo magico… due persone ferme a guardare la facciata della chiesa e passiamo noi, comitiva caciarona di ex compagni di scuola appena usciti dal ristorante: tacchi che battono sull’acciottolato, chiacchiere, risate, commenti idioti… insomma, chiaramente abbiamo spezzato l’incantesimo – Ma cos’è…? L’asilo infantile? – Sento una vocetta petulante e disgustata e mentre mi volto, riconosco il casco voluminoso dei capelli e la postura leggermente curva all’indietro del mio “idolo”… e mi viene il nervoso: perchè ha ragione – siamo rompiscatole -perchè è acido –  e l’ho sempre immaginato serafico ed etereo – perchè mi sento in colpa – sto facendo casino anche io… no, no meglio continuare ad ascoltare da lontano; magari inseguendo altri cantanti, altri compositori.

Dunque, chi c’è nella lista dei desideri? Modena City Ramblers, Giovanni Allevi, Ludovico Einaudi, Chango Spasiuk, Nick CAve… chissà…

Mag 19, 2012 - Sogni e nostalgie    2 Comments

Spolverando 2… Parole cestinate

Il dono

In un giorno qualunque, senza preavviso o intenzione, Ester e Carlo si incontrarono di nuovo.
Mentre Ester vagava tra le corsie dell’ampia libreria – dieci minuti rubati all’attesa del treno verso casa – Carlo emerse dalla porta scorrevole: per un momento il caos rumoroso della strada superò la vetrata, per poi ritrarsi. Ester si voltò, e se lo trovò davanti, a chiudere il passaggio sicuro verso l’uscita. Un attimo, poi il lampo di riconoscimento negli occhi di lui le impedirono di girarsi di scatto ed andarsene.
Era già successo, o meglio aveva già corso il rischio di incontri analoghi; quanti anni erano ormai passati dal periodo sognante e tormentato del loro amore? Ester non aveva voglia di contarli; ma le era già capitato di poterlo incrociare, salutare – impossibile evitarlo del tutto nella loro piccola cittadina – almeno nei periodi in cui Carlo rientrava dai suoi viaggi di lavoro e di studio… ma sempre Ester era riuscita  a nascondersi. A scappare. Per non ritrovarsi nuda e indifesa di fronte al suo sguardo – o forse a se stessa – travolta dai ricordi e dai rimpianti.
Un attimo e le mani si strinsero, le frasi di circostanza presero a scorrere, mentre nelle orecchie di Ester un rombo prepotente le ricordava i battiti impazziti del suo cuore.
Senza sapere come, si ritrovò seduta al tavolo di un caffè. Guardava Carlo rigirare pensoso tra le dita la tazzina ormai vuota, lo ascoltava raccontare del suo lavoro, della nuova ricerca… minuzie innocue, senza rischio di compromettersi, di scendere sul personale. Ma in realtà Ester non era sicura di seguire il filo dei pensieri, non riusciva a concentrarsi, perché altre parole stavano prendendo forma nella sua mente …
_  Non importa, amore mio, non importa – avrebbe voluto dirgli – se gli anni sono passati e hanno portato via la nostra bellezza… Immagino come possa irritarti la calvizie; ma non importa, perché tu sei ancora altero e diritto nel portamento fiero che mi conquistò allora. Il tuo passo ha ancora quella scioltezza elegante e pacata che riconoscevo ovunque, per quanta folla potesse esserci intorno a noi. L’ho visto mentre ti avvicinavi.
La stretta di mano salda; il tuo modo di parlare e raccontare le cose: questi anni ti hanno arricchito, perciò non importa se i tuoi begli occhi dorati mi scrutano dietro un paio di lenti; il tuo modo di strizzarli per la stanchezza è rimasto, l’ho notato in libreria, quando mi hai guardato prima ancora di riconoscermi.
I tuoi interessi, il tuo modo di raccontare sono sempre qui, ne sono sicura; puoi parlarmi ancora per ore e ore: di cinema., libri, filosofia, musica, di niente, se vuoi… Quanti argomenti riuscivamo a toccare in quei lontani pomeriggi, nelle ore troppo veloci a danzarsene via?
Non importa, amore mio, non importa se mi aspettano a casa, se sto perdendo il treno, se non ci parleremo mai più, non importa: questo è un momento solo per noi. Solo per me, forse. –

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